Non dite a mia mamma che sono Senatore, lei mi crede pianista in un bordello
Questo il mio ultimo articolo per la rivista RS Servire.
La via verso la nobiltà.
Tra tutte le attività umane la politica è una delle più alte e nobili. “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia” : è una frase celeberrima di Don Milani che aveva in massima considerazione la politica anche se minima stima per i politici. Non pensare solo a se stessi, cercare soluzioni condivise, porsi il problema delle sorti collettive, sentire come proprio il bisogno di giustizia, di equità, di emancipazione che colpisce gli altri. Ho sempre pensato che l’impegno in politica fosse uno dei modi più generosi di spendere la vita proprio perché strutturalmente legato a mettere il problema del noi (io e gli altri) al centro di ogni preoccupazione, di ogni studio, di ogni intelligenza e di ogni azione. Un modo per cercare di realizzare i sogni cresciuti in me quando ero ragazzo, una via per seguire l’esempio di coloro (Martin Luther King, Robert Kennedy, Gandhi, Albert Schweitzer…) che avevano illuminato con il loro esempio gli anni della mia adolescenza. Per usare una metafora scout: una strada per camminare insieme verso il futuro. Se ho tardato nel decidermi ad entrare in politica (pochissimi anni fa con l’elezione al Senato) non è stato per scarsa considerazione di questa attività ma per un sentimento di inadeguatezza che mi sono sempre portato dentro, pensando di non essere sufficientemente all’altezza di un compito pur così bello e impegnativo e forse neanche capace di entrare in meccanismi complessi che mi apparivano troppo sfidanti e difficili per le mie forze.
La strada del disprezzo.
L’idea alta e nobile della politica che mi sono sempre raffigurato contrasta però in modo netto con il discredito per non dire il disprezzo che oggi la circonda insieme alle istituzioni. Non solo privilegiati, gente della casta ma anche ladri, fannulloni, mafiosi, corrotti, furfanti, ipocriti, gente con le mani lorde di sangue: questi sono solo alcuni degli epiteti che, da quando sono stato eletto, mi sento rivolgere quasi quotidianamente su social media, nelle trasmissioni televisive e radiofoniche a volte anche per strada. Parlare male della politica e dei politici inizialmente era prerogativa di un certo tipo di ambienti sociali e culturali tendenzialmente poco interessati alla cosa pubblica ma oggi è diventato davvero un modo di pensare diffuso e generalizzato. Non è infrequente che anche amici di lunga data, donne e uomini impegnati e con responsabilità di alto livello, usino nei confronti della politica espressioni che definirei in modo eufemistico critiche e sarcastiche; alcune persone, persino famigliari che sono certo mi vogliono bene mi hanno confidato di essere sinceramente dispiaciuti che anche io abbia fatto questa fine, in pratica che sia caduto così in basso da fare…. politica.
Diritto all’ascolto?
Anche se la situazione mi ferisce e mi disturba capisco che il disprezzo che ci colpisce non ha, nonostante le apparenze, natura personale (“quando morirai sarà sempre troppo tardi”, mi ha scritto un simpatico lettore via tweet) e trova origine in una ragione più complessa che definirei una generale crisi di legittimazione. Cosa intendo dire? E’ un problema con diverse facce. La prima è che oggi nessuno è più sicuro, direi garantito, di poter avere autorità e influenza sugli altri per il semplice fatto di rivestire un ruolo. Un tempo in ogni villaggio c’erano tre autorità: il sindaco, il prete e il medico (potrei aggiungere: l’insegnante). La loro parola era ascoltata e rispettata come se fosse dotata di una verità propria e indiscutibile. Oggi – forse per fortuna – non è più così, l’autorità non implica autorevolezza e diritto all’ascolto: anche se parla il Presidente della Repubblica o il Pontefice o un premio Nobel per la Chimica le sue parole, i suoi comportamenti sono oggetto di critica, di dissezione, di analisi e spesso di contestazione. Solo una forte credibilità personale riesce a far breccia nel muro di scetticismo che circonda la persona pubblica.
Di ogni erba un fascio.
Il punto è che poco per volta lo scetticismo che riguardava i singoli si è trasferito sulle istituzioni. La critica dunque non è più rivolta (solo) al singolo politico ma alla politica nel suo complesso, non più al singolo parlamentare ma a tutto il Parlamento, non al singolo giudice ma alla magistratura, non al professore universitario ma a tutto il mondo accademico, non al singolo medico ma alla medicina nel suo insieme. Il fatto è che è la stessa appartenenza alle istituzioni – una volta segno per se stesso di credibilità – oggi è diventata diventa stigma, cioè segno di discredito. Proprio perché fai parte di una istituzione – volgarmente: casta – non ti credo e non ti rispetto.
Un’allegra brigata.
Appaiono più credibili o quanto meno più creduti i ciarlatani, i saltimbanchi, i comici, i giullari, gli incantatori di serpenti, i pifferai magici (che non a caso oggi svolgono un ruolo di influenza politica assai più incisivo ed efficace di chi siede all’interno delle istituzioni politiche tradizionali). Se fai parte di una commissione, studi un provvedimento, prepari una relazione, ascolti degli esperti in lunghe audizioni, trai delle conclusioni dopo un ampio di battito in contraddittorio tra diverse tesi non hai alcuna credibilità – agli occhi del grande pubblico – mentre se ti improvvisi esperto e in piazza (o meglio in quella piazza globale che è la televisione) irridi o insulti o beffeggi, tutti quelli che non la pensano come te o più semplicemente quelli che non sono te (non è infatti più necessario avere un pensiero) ebbene allora troverai folle osannanti pronte a seguirti. Si consideri la vicenda del metodo Stamina o di Di Bella. Sul piano politico l’esperienza delle ultime elezioni americane e la vittoria di Donald Trump sono esemplari da questo punto di vista e così pure la campagna di Farage a favore della Brexit. Esse attestano che oggi la critica si sposta dal merito di ciò che dici (ti contesto perché affermi delle cose che sono false) alla fonte di provenienza delle parole che vengono dette (siccome sei tu che dici allora le cose che affermi sono false).
Resilienza.
Per quello che mi riguarda ritengo che servire le istituzioni, farne parte, rispettarle, sostenerne il decoro, impegnarsi a rappresentarle in modo degno, tentare di riformarle attraverso un dibattito pubblico sia una forma di resistenza, anzi di resilienza verso una deriva che non condivido e che temo non porti verso alcun approdo sicuro.
Charlie Hebdo.
Corrodere ogni punto di riferimento, demolire i simboli, svilire i luoghi del confronto e della democrazia non aiuta un Paese a superare le difficili prove che può trovarsi ad affrontare. Ho un ricordo speciale che vorrei condividere: mi trovavo a Parigi nei primi giorni del gennaio 2015. Mi ero recato nella capitale francese per testimoniare la mia vicinanza a quel grande Paese dopo l’attentato a Charlie Hebdo nel quale erano stati uccisi da alcuni terroristi quasi tutti i redattori di una rivista satirica. C’era una folla immensa, anzi c’erano folle immense che marciavano sui boulevard . C’era talmente tanta gente che neppure capivamo dove stessimo davvero andando. Ad un certo punto il corteo al quale mi ero unito si ferma e resta bloccato per almeno mezz’ora senza riuscire più ad avanzare. Ero certo che la gente avrebbe cominciato ad imprecare e a dare segni di insofferenza. Invece successe qualcosa di totalmente inaspettato, di straordinario, di emozionante e persino di commuovente. Un atto di straordinario significato politico: tutti coloro che erano in corteo, spontaneamente, con grande forza e quasi con allegria si misero a cantare la Marsigliese, l’inno nazionale francese. Mai come in quel momento ho avuto la consapevolezza dell’importanza dei segni e delle istituzioni per un popolo che soffre e che spera, che ha bisogno di riconoscersi in qualcosa che ricomprenda tutti. Un grande atto politico, un gesto semplice, una difesa delle istituzioni alla portata di tutti.
Una questione morale ma non solo.
E’ doveroso a questo punto domandarsi il perché della crisi di legittimazione della politica e delle istituzioni. Perché nessuno più canta la Marsigliese o l’Inno di Mameli a meno che non siano venuti i terroristi a spararti in casa? Una prima risposta semplice è che se i politici sono considerati dei ladri, i funzionari delle istituzioni dei burocrati, i medici dei baroni è che effettivamente molti di loro (a questo punto dovrei dire: di noi) sono stati dei ladri, dei burocrati, dei baroni…
Formulata in questi termini la critica è però solo di tipo morale e forse non coglie appieno il motivo della crisi che ritengo abbia anche un aspetto più profondo.
Un potere impotente.
Se la politica e le istituzioni oggi soffrono una crisi di legittimazione è anche perché ci si sta poco a poco rendendo conto che esse sono sempre meno in condizione di svolgere la funzione per la quale sono state “istituite”, cioè quella di regolamentare, di governare, di esercitare il potere e quindi di trovare le soluzioni così come ci si attende da loro. Il potere non è in crisi perché qualcuno lo insulta (questo è sempre avvenuto nel corso della storia) ma perché non è più in grado di funzionare efficacemente dunque non è più veramente un potere (e allora cosa ci state a fare lassù? scendete dal piedistallo e dai vostri privilegi! A casa!).
Governance multilivello.
Chi prende le decisioni? Chi governa il destino degli uomini? Conta più il decreto di un Ministro o la decisione del Board di una multinazionale che decide, per esempio, di trasferire la produzione di uno stabilimento di valvole da Voghera alla Cina? Mille dipendenti rimangono per strada, mille famiglie sull’orlo del baratro. Per contrastare i cambiamenti climatici conta più il voto di un parlamento nazionale o la decisione del G7 o del G20? Conta più la decisione di un Ammiraglio o quella di un funzionario della NATO? e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? e l’Unione Europea (con la sua Commissione, il suo Consiglio, il suo Europarlamento)? e il Mercosur o il NAFTA? Detto in altre parole: chi è in grado di regolare, di strutturare, eventualmente di difendere i mercati? Da essi dipendono le vite di miliardi di individui. La risposta è che ci troviamo in un sistema decisionale multilivello in cui ci sono diversi organi istituzionali che hanno una dimensione di volta in volta locale, nazionale, internazionale, multinazionale che interferiscono reciprocamente e si passano la palla come nella intricata strategia del calcio di Beppe Guardiola.
Dallo Stato al sistema.
In che direzione stiamo andando? Le istituzioni, la politica, la democrazia per come le conosciamo oggi hanno un futuro? riusciranno a superare la crisi di legittimazione che le corrode? Molti elementi fanno propendere per una risposta negativa. Il punto è che persino le istituzioni sovranazionali rischiano di essere presto superate da una realtà più potente e per certi aspetti più anonima, più democratica, più inquietante. Oggi le grandi transazioni finanziarie, i grandi trasferimenti di ricchezza avvengono per via telematica senza che vi siano più confini, barriere fisiche, doganali, normative che le possano veramente influenzare e tantomeno fermare. Dal mio piccolo computer posso acquistare o vendere la mattina titoli sulla borsa di Tokyo e rivenderli la sera su quella di NewYork senza che sia applicabile né la legge italiana, né quella giapponese, né quella americana. Lo stesso avviene per le commodities (cioé le merci, le derrate alimentari, le materie prime e i minerali rari). I mercati si auto organizzano sulla base di regole interne che sono vincolanti non perché emesse da una autorità superiore ma semplicemente perché considerate ragionevoli e utili dall’insieme di coloro che vi operano. Anche il controllo avviene in modo diffuso e capillare, non da autorità precostituite ma dagli stessi operatori. La cultura si costruisce non più intorno al pensiero di un gruppo di cattedratici o enciclopedisti ma intorno al libero apporto di centinaia di migliaia di contributori di Wikipedia; le notizie si costruiscono grazie a grappoli di commenti e di blog su Huffington Post, su Medium o più semplicemente su Twitter o Instagram, mentre crolla la stampa tradizionale pur sempre espressione di una forma di potere centralizzato. Gli acquisti di prodotti al consumo si fanno su Amazon o Alibaba, la musica si consuma su iTunes o Spotify, il lavoro si trova su Linkedin, persino l’anima gemella si cerca su siti di dating online come Meetic, Tinder o Ones. Tutte comunità che tendono a costruire autonomamente regole o meglio standard di comportamento che si affermano in forza di una loro capacità persuasiva interna. Non ci sono più legislatori o governanti ma solo partecipanti al mercato o meglio: alla piattaforma, al sistema. Ecco lo Stato, il sistema degli ordinamenti nazionali costruitosi faticosamente nell’’800 e nel ‘900 a prezzo di guerre e rivoluzioni sanguinarie si dissolve in silenzio a favore di un sistema che non è né nazionale, né internazionale ma semplicemente globale (non ha più confini).
Bitcoin
Si va diffondendo negli ultimi anni una nuova valuta esclusivamente virtuale: i bitcoin. Non è chiaro chi l’ha emessa ma di fatto viene sempre più accettata e considerata un valido strumento per regolare le transazioni commerciali. Poche settimane fa, a fronte di un grande attacco alle principali istituzioni e amministrazioni pubbliche dei paesi occidentali da parte di hacker digitali è stato chiesto un riscatto da pagare in bitcoin. Sembra che molti abbiano accettato di pagare. Nel momento in cui uno Stato o un’entità sovranazionale accettasse che le transazioni venissero regolate con una valuta come i bitcoin non avrebbe più il controllo della propria economia e dunque dei propri mercati (leggasi: lavoro, investimenti, crescita). Insomma non avrebbe più sovranità né legittimità né autorità sul suo stesso territorio. In pratica sarebbe morto. Ma la rete è esattamente questo: la de-territorializzazione dei centri decisionali e anche la loro spersonalizzazione.
Vedette.
In questa rete così fitta servire le istituzioni significa dunque avere la consapevolezza che il proprio compito non è quello di trovare da soli tutte le soluzioni ma quello di contribuire ad influire su un processo complesso a cui partecipano tanti attori e tanti soggetti decisionali. Piccola vedetta di un grande esercito senza alcuna frontiera esterna da difendere e ciò nonostante consapevole della responsabilità che il proprio vigilare e il proprio comportamento può avere sulle sorti complessive della preziosa comunità a cui apparteniamo.
Servire le istituzioni. In che modo? Potrò dare tra dieci o venti anni anni la stessa risposta a chi, come i cortesi amici della redazione di servire, me la pone oggi? Probabilmente non sarebbe la stessa risposta, non saranno più le stesse istituzioni e magari non sarà più nemmeno la stessa domanda.
Buon futuro a noi tutti!
Roberto Cociancich